“La bambina sputafuoco” è il romanzo d’esordio di Giulia Binando Melis, giovane autrice di origine sardo-piemontese. Il suo libro è uscito pochi mesi fa, a febbraio 2022, pubblicato dalla casa editrice Garzanti.
Il titolo, la copertina e la trama mi hanno da subito incuriosito, ogni dettaglio di questo libro mi ha catturata fin dalla sua uscita, ancor prima che arrivasse sugli scaffali della mia libreria.
La storia di Mina e Lorenzo è una di quelle storie così carine, genuine e commoventi che è impossibile non empatizzare con loro. “La bambina sputafuoco”, inoltre, prende spunto dall’esperienza vissuta in prima persona dall’autrice: questo elemento mi ha spinto ancora di più a voler leggere questo romanzo il prima possibile.
Due vite e un destino
Martina, detta Mina, ha solo 9 anni quando deve essere ricoverata all’ospedale Regina Margherita di Torino a causa di un raro linfoma che le impedisce di vivere appieno la sua vita di bambina. Dopo lo sconforto iniziale, Mina non si abbatte, grazie anche alla costante presenza e vicinanza dei suoi amorevoli genitori e della sorellina minore Olivia, con la quale ha un legame molto speciale.
Mina riesce ad affrontare le numerose sessioni di chemioterapia a cui deve sottoporsi, le analisi e i continui controlli grazie a due armi potentissime: l’immaginazione e la fantasia. Nella sua mente lei si sente forte e invincibile come un drago, tanto che spesso sembra assurmene davvero le sembianze:
A rallegrare il suo soggiorno, inoltre, c’è l’incontro con il piccolo Lorenzo, anche lui ricoverato in attesa di un trapianto di midollo. Tra loro non scocca subito la scintilla, anzi, all’inizio lui è parecchio scontroso perché ormai stufo di stare in ospedale.
Dopo un primo approccio poco simpatico, diventeranno presto amici inseparabili e insieme saranno in grado di affrontare e superare qualsiasi cosa.
Un inno all’amicizia e alla famiglia
Ciò che immediatamente viene fuori da questo romanzo è sicuramente la forza dell’amicizia e la vicinanza della propria famiglia. Senza questi due elementi fondamentali, molto probabilmente, né Mina né Lorenzo sarebbero stati in grado di affrontare la situazione nello stesso modo.
Quello che dà loro la forza di resistere e di non crollare, dopo mesi e mesi passati in ospedale, è il loro legame unico e speciale, fatto di linguaggi e gesti che solo loro sapevano interpretare. Mina e Lorenzo riescono a trasformare un’esperienza traumatica e spiacevole, in un’esperienza vissuta quasi come un’avventura, un “gioco” fatto di prove da affrontare per riuscire a uscirne il prima possibile. La loro fiducia nei dottori e nell’ospedale non sempre è incrollabile, come si può immaginare, ma insieme riescono a superare una prova difficilissima, per la loro giovane età.
Mina e Lorenzo sono due personalità molto forti e il loro legame è così tenero e commovente che a volte, durante la lettura, avresti solo voglia di fermarti ad abbracciarli. Diventa abbastanza facile entrare in empatia con loro, anche se non si è vissuta un’esperienza simile, come quella di un ricovero prolungato.
Un altro elemento che spicca particolarmente è il rapporto con la famiglia. Lorenzo ha accanto la sua mamma che, dal lago di Como, fa quasi ogni giorno su e giù pur di poter stare con il figlio, così come i genitori di Mina fanno i turni per le visite alla loro bambina. E, inoltre, quando quest’ultima può finalmente tornare a casa tra una cura e l’altra, ad attenderla ci sono i nonni e la sua sorellina, che vorrebbe passare ogni singolo momento con lei. Entrambi sono circondati d’amore anche dai numerosi medici che ogni giorno vanno a visitarli nelle loro camere, medici che ormai sono diventati quasi una seconda famiglia.
Per rafforzare ancora di più la vicinanza e l’affetto degli amici, Giulia ha utilizzato un espediente che ho trovato molto carino e simpatico: qua e là tra i capitoli, sono disseminate le lettere che le maestre e i compagni di scuola scrivono a Mina, in attesa che lei possa rientrare finalmente a scuola. Così come è presente la corrispondenza che Mina e sua sorella si scambiano costantemente, per raccontarsi ciò che avviene a casa e in ospedale.
L’uso di un lessico infantile
Oltre alla storia, quello che mi ha colpito maggiormente è stato lo stile narrativo utilizzato dall’autrice. Un linguaggio semplice, che ricorda molto il modo di parlare di un bambino. Le frasi non sempre sono perfette, così come non lo è la sintassi: spesso si ritrovano pronomi personali utilizzati in modo errato (gli/le) per indicare il femminile e il maschile o anche l’uso di “a me mi”…
Uno stile di scrittura che può piacere o meno, ma che sicuramente permette di immergerci ancora di più nei pensieri di Mina e Lorenzo. In particolare percepiamo ciò che prova Mina poiché è sempre lei a raccontare la vicenda, in prima persona. Il linguaggio tipico dei bambini della loro età permette a noi lettori di sentire appieno ciò che vivono loro in maniera più immediata: le gioie, le sofferenze, i giochi, le chiacchiere, i segreti e… la tentata fuga dall’ospedale!
Un altro aspetto curioso è l’utilizzo particolare del discorso diretto. Giulia non utilizza la punteggiatura classica per farci capire che una persona sta parlando, ma semplicemente inizia la frase, o la prosegue, usando la lettera maiuscola.
Ammetto di averci messo un po’ a familiarizzare con questo tipo di scrittura, perché non ci sono abituata, ma dopo diventa più semplice e abbastanza scorrevole: la storia scivola bene a discapito delle sue 300 pagine!
Con questo libro l’autrice è riuscita quasi a commuovermi, e io mi commuovo davvero di rado con libri e film! Il bello di questo romanzo è che, nonostante affronti un tema difficile e importante come quello della malattia, riesce a farlo in maniera fresca e delicata e a strapparti persino qualche sorriso. Una di quelle storie che non lascia la pesantezza sul cuore e, quando arrivi all’ultima pagina, vorresti solo essere anche tu amica di Mina e Lorenzo.
L’autrice
La ventottenne Giulia Binando Melis, come può suggerire il suo cognome, ha origini sarde e piemontesi. Si è laureata in Filosofia con una tesi sulla morte, ma giura di essere un tipo allegro. Di giorno realizza progetti narrativi come creativa freelance, mentre di sera fa la cantante. Dopo la laurea ha collaborato con la Scuola Holden di Torino.
Scrivere “La bambina sputafuoco” non era nei suoi piani, era una di quelle storie così intime e delicate che avrebbe voluto tenere per sempre in un cassetto. Ma a volte i programmi possono essere scompaginati e così, come lei stessa ha dichiarato in un’intervista:
“In un master che ho frequentato alla scuola Holden, facevamo un esercizio crudelissimo che si chiama ‘Il cerchio’ in cui si è invitati a raccontare frammenti importanti della propria vita che poi diventano argomento di scrittura. Io ho raccontato della mia esperienza con la malattia e ho poi letto la mia storia scritta da altri. Non è stata una bella sensazione. Ho capito che il momento era arrivato, dovevo essere io a raccontare la mia storia, il materiale non era più incandescente, potevo lavorarlo. Nel libro ci sono tanti ricordi e fantasia, personaggi veri e inventati”.
All’interno del romanzo ciò che mi ha generato ulteriore curiosità è stata la metafora del drago. Quando le è stato chiesto il perché di questa scelta, l’autrice ha risposto così:
“I draghi appartengono al mondo del fantasy, il genere che amo di più. Ero una bambina solitaria, amavo perdermi nelle storie fantastiche che leggevo, immedesimarmi nei personaggi. Ero fissata con i draghi, cercavo ovunque tracce della loro presenza. Il drago è forte, fa paura, allontana ogni nemico ed è custode di tesori, il mio drago in particolare custodisce i sogni, le speranze, ciò che c’è di più prezioso, la vita stessa di Mina”.
Dopo che ho finito di leggere il libro, ho avuto anche io il piacere di fare quattro chiacchiere con Giulia: mi ha parlato un po’ di sé, definendosi una “nomade digitale” perché ama girare per il mondo e scoprire le storie degli altri. Anche per questo l’ho invitata in libreria per la presentazione del suo romanzo e chissà che, dopo l’estate, non ci sia una sorpresa… Stay tuned!
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